A proposito di competenze, tecnologie digitali, imprese, competizione e futuro, condivido questo mio contributo del 1999. Come poter recuperare il ritardo e non perdere la speranza nel nostro paese?

Economia digitale e brainware generation: le sfide e le opportunità del nuovo millennio. Presentazione Rapporto EITO ‘99.

Innovazione ed apprendimento

Nel nostro Paese da una parte c’è disoccupazione, dall’altra immigrazione. Nel solo settore dell’Informatica e Telecomunicazioni (ICT), si stima in 30 mila il numero di posizioni aperte oggi in Italia e non ricopribili. Le Università sono sollecitate a fornire più diplomati e laureati, riducendo gli abbandoni. Le aziende cercano con insistenza tecnici a tutti i livelli senza trovarli. Nella vicina Svizzera tedesca si offrono 3500 Franchi al mese a diplomandi– laureandi in stage e il bacino d’offerta di lingua tedesca non riesce a rispondere. In Inghilterra (come in Italia) i posti di dottorato vanno deserti perchè le aziende offrono molto denaro ai neo-master o bachelor migliori. Se si parla con i manager di aziende che producono high tech, la carenza ai livelli medio-bassi è cronica ma a quelli medio-alti è pericolosa: ci sono più progetti possibili che veri capi progetto disponibili. Il periodo minimo di formazione post laurea per un capo progetto è due anni (per intenderci: su tecnologie come SAP, Oracle, integrazione reti, …). Un ciclo formativo che non ottimizza né le risorse universitarie né quelle in azienda.

Il problema è abbastanza nuovo. La velocità di trasformazione dell’organizzazione del lavoro indotta dalle tecnologie richiederebbe non tanto di adeguare le competenze inseguendo gli strumenti alla moda, piuttosto di affinare in modo proattivo la capacità per le risorse umane di adattarsi, imparare, anticipare. Ad ogni livello: dal tecnico al manager. Per avere questo, non basta “eseguire”, bisogna avere il coraggio di “proporre”. E soprattutto averne facoltà. Un problema di deleghe di responsabilità.

Per sintetizzare l’essenza del problema utilizziamo soltanto due criteri, entrambi differenziali: il primo riguarda il confronto fra tecnologie oggi–sostanzialmente legate all’Informatica ed alle Telecomunicazioni (ICT)- e tecnologie ieri (come l’auto o gli elettrodomestici). Il secondo riguarda il confronto fra Italia ed altri Paesi occidentali.

La seconda rivoluzione industriale: le ICT sono “industrie”?

L’industria tradizionale poteva ragionare in termini di competenze “stabili” per anni, di un equilibrio più o meno prevedibile fra investimenti –della proprietà– capacità gestionali e operative della struttura e infine mercato. La trasformazione dalle materie prime ai prodotti poteva contare sulle macchine più che sugli operatori umani. Entrambi erano più o meno sostituibili. Il mercato, specie in Italia, era abituato a qualche rete di protezione, se non ad operare in condizioni di monopolio. I rapporti fra Imprese e la catena di interdipendenze fra imprese e con la Pubblica Amministrazione erano ben consolidati.

La globalizzazione dei mercati e l’emergenza delle tecnologie ICT ha totalmente, radicalmente modificato questo scenario.

L’impresa ICT –così come le altre che comunque devono introdurre ICT- devono competere in base al valore aggiunto dei prodotti. Non basta ridurre il costo dei processi introducendo macchine e licenziando il personale. Tutto ciò è possibile se i processi produttivi, che sono già in gran parte automatici innovano, cioè se le risorse umane sanno adeguarsi, sia come competenze specifiche (di prodotto) che, soprattutto, come capacità di lavoro di squadra.

La sfida non si gioca più solo sulla presenza sul mercato, ma soprattutto sulla qualità che dipende direttamente dalle persone e dal loro modo di lavorare.

Nel caso specifico delle imprese ICT, queste –a differenza delle altre– non vendono semplicemente prodotti, ma soprattutto servizi. E i servizi, a differenza dei prodotti, sono “vendibili” se il cliente si fida davvero. Della faccia del fornitore, della sua capacità, delle referenze che può mettere sul tappeto. Non della sua etichetta: questa serve solo come nome da associare al valore delle referenze su attività precedenti.

Spesso per vincere una commessa bisogna presentare in poco tempo un prototipo di soluzione che renda giustificabile il valore della commessa. E questo prototipo chi lo fa? E chi lo paga? E ancora, chi è tanto “maturo” da far apprezzare al cliente –che ragiona in termini di valore aggiunto per il suo specifico applicativo– l’investimento economico che gli si chiede? Dal momento in cui i produttori di tecnologie iniziano ad occuparsi di un potenziale cliente al momento in cui rientrano i pagamenti della commessa passano mesi, a volte anni; molte persone lavorano. E ogni commessa è diversa dalle altre. E’ un modello industriale classico, questo, oppure piuttosto un modello di fornitura di servizi ? Dov’è “la materia prima” nella fornitura di ITC? La carta delle stampanti o i doppini Ethernet? Oppure la testa –le capacità– dei progettisti e la loro integrazione in gruppi ben coordinati?L’hardware il software o il brainware?

Dunque: ogni operatore sul fronte della produzione di servizi è un professionista! Questa figura è diversa da quella “classica” del tecnico, considerato storicamente appena un po’ di più di un operaio specializzato …

In questo scenario, le competenze ICT diventano cruciali. Vinta una gara, bisogna fornire davvero il servizio! Spesso al momento della gara le tecnologie si chiamano X, mentre al momento della valutazione della fornitura è cambiato tutto da X ad Y. Ad esempio per “colpa” o “merito” di Internet, oppure per i nuovi standard emergenti. Un “bravo” tecnico di X deve diventare bravo in Y, oppure essere rimpiazzato. Ma in questo secondo caso, il nuovo specialista in Y non avrà la stessa “esperienza” del più maturo tecnico –diventato un professionista- in X. Quale “base formativa” permette una soluzione?

Naturalmente non c’è una ricetta valida sempre. Una osservazione fondamentale è che la questione della formazione è diventata cruciale, ma che ne è anche cambiata la natura. Non bastano gli specialisti, ci vogliono persone “mature” che sanno leggere, scrivere e mettersi in relazione. Soprattutto tanto audaci e modeste da non temere di affrontare cambiamenti, di sottoporsi a sfide impreviste. Queste “figure” l’Università non riesce a produrle a sufficienza.

Da ciò i tentativi “sgangherati” delle centinaia di corsi “just in time” post università che cercano di “aggiornare” i giovani sui temi tecnologici più attuali. La speranza sarebbe che SAP o ORACLE durino, perché quando cambieranno le etichette delle tecnologie richieste … gli specialisti dovranno seguire altri Corsi … e tutto costa, costa molto …

Identificato il problema, possiamo ora tentare una ipotesi di soluzione. Da una parte nel richiedere all’Università una maggiore consapevolezza della sinergia indispensabile fra concetti di base –che bisogna insegnare meglio– e strumenti applicativi che bisogna “lasciar imparare” di più, soprattutto con tecniche di affiancamento su progetto e non di aula. Ad esempio: le applicazioni oggi sono integralmente diverse da quelle di dieci o solo di cinque anni fa. Molti dei concetti di base di queste applicazioni anni fa non esistevano. E’ l’obiettivo formativo che determina il curriculum, non il preinstallato docenti. E’ la esigenza di competizione sul mercato che determina la scelta di innovare in azienda, non la storia del nonno imprenditore che “ha sempre fatto così ed ha avuto successo”. Solo una integrazione fra Università e contesto del lavoro può aiutare a capire come innovare nelle prime in funzione delle esigenze delle seconde. Il tradizionale “docente” deve cambiare: da fonte di conoscenza deve diventare stimolo all’apprendimento. Ma le aziende sbaglierebbero se dovessero chiedere alle Università di erogare competenze spicciole sugli strumenti alla moda –perché non vogliono spendere per i Corsi specializzati post laurea-. Ciò che hanno il diritto– dovere di chiedere è di ridefinire insieme alle Università, con dei tavoli di concertazione locali e permanenti, i concetti di base necessari per acquisire le competenze sulle mutevoli mille applicazioni di moda oggi e probabilmente emergenti domani. Un processo assai faticoso, ma indispensabile. Far emergere i concetti di base indispensabili per le tecnologie, ma con una vista che anticipa le stesse: perciò l’Università deve produrre ricerca anche solo per fare buona didattica. La distanza fra ricerca ed applicazioni, nelle ITC, è dell’ordine di 10 anni in media, ma sta diminuendo. Un buon ricercatore usa oggi strumenti che saranno probabilmente alla moda fra 5–8 anni. Quando lo studente esce e va sul mercato. Questi docenti-ricercatori, assieme ai responsabili a livello alto delle aziende, dovrebbero vedersi per dare un contributo ai curricula e soprattutto alle modalità di organizzazione dell’apprendimento istituzionale.

Dall’altra le Aziende –se vogliono sopravvivere– devono “capire” continuamente i cambiamenti e incominciare a delegare. Rischiando sulla scelta delle persone a cui delegare, più che sul capitale investito. Sono le competenze del personale che fanno il successo (o portano al ristagno). Se i mercati non sono più garantiti, invece che adottare tecniche autocratiche bisogna affrontare la gara e vincere. Grazie a tutti. Non si tratta di gratificare il personale con incentivi economici, ma ridistribuendo responsabilità effettive, con tutti i rischi. L’Italia è il Paese occidentale con il numero più alto di piccole aziende perché più grande è l’azienda e meno libero è l’individuo ad esprimere la sua professionalità. Si preferisce sopravvivere essendo liberi piuttosto che avere cespiti sicuri in condizioni di subordinazione. D’altra parte, le piccole aziende non possono fare massa critica sempre. Questo è il problema. E mentre si perde troppo tempo a gestire l’ingegneria degli accordi, gli altri conquistano i mercati emergenti. Delegare significa anche permettere alle persone di “perder tempo” ad imparare, permettere loro di esprimersi, di suggerire soluzioni. Un dipendente–partner così responsabilizzato e con una buona formazione di base sarà sempre disposto ad impegnarsi ad imparare.

Il confronto con gli altri paesi

L’altro criterio di analisi parte dal confronto con gli altri. Nel resto d’Europa c’è un grande rispetto per le tecnologie americane e giapponesi, ma non c’è il livello di totale asservimento che vale da noi. Ad esempio: Aerospatiale ed Airbus hanno battuto (o competono) con gli USA in due settori a tecnologia avanzatissima. Le aziende di telecomunicazioni potrebbero farlo. SGS Thomson non resta troppo indietro rispetto a Intel e Motorola. Dunque le possibilità ci sono: investimenti, teste e mercato. Ciò che è necessaria è la volontà. Se Airbus ha vinto lo si deve al fatto che in Francia nessuno si permetterebbe mai di accettare che qualcosa è necessariamente migliore solo perché americano o giapponese. Al contrario: qualunque sia il prodotto, i vicini d’oltralpe tentano di dimostrare sistematicamente che anche loro lo sanno ottenere. Questo vale anche per altri Paesi europei.

Dunque, primo criterio: crederci. Non solo che è possibile –cosa peraltro facile, quasi ovvia– ma soprattutto che è utile, per l’Economia innanzitutto. Il resto è una conseguenza. E’ chiaro che se crediamo che dobbiamo competere allora non possiamo accettare che i fondi pubblici vadano alle aziende che dicono di investire in R&D senza poi controllare i risultati ottenuti spendendo quei fondi. Ancora: se le tradizionali Istituzioni di Ricerca o di Formazione devono assumere un ruolo nella competizione globale, tecnologie incluse, allora la valutazione dei loro risultati (ricerca e didattica) diventa indispensabile. Allora i docenti/ricercatori –sapendo di essere valutati– dovranno rendersi disponibili al confronto con società ed economia, cioè con le esigenze che ne giustificano il servizio. Allora il rapporto fra ricerca di base e sperimentale (fondi alle Istituzioni che hanno la ricerca come fine) e ricerca applicata (fondi alle imprese), verrà modificato. Tutte conseguenze dell’assunto: dobbiamo competere, sì, anche con gli Americani, certamente con gli altri; quando non possiamo, dobbiamo accordarci per importare tecnologie, sapendo che questo ci costerà molto in termini economici ma soprattutto in termini strategici (la dipendenza impedisce la moltiplicazione dei nuovi prodotti). Naturalmente, visto che siamo in Europa, la competizione con oltre oceano la dobbiamo valutare non solo per il Paese Italia ma per tutta l’Unione. E dobbiamo smetterla di crederci in diritto di affermare che “in Italia è diverso” rispetto al resto d’Europa, perché il tempo è scaduto per la moneta e sta per scadere per la tecnologia, e cioè per la competitività delle imprese sul mercato.

 

Gianna Martinengo