Il mio interessante lavoro di imprenditrice del settore ICT, con particolare riferimento al Digital Learning, mi ha portato, negli anni, ad incontrare professionisti italiani di tantissimi settori merceologici.

Ugualmente, ho potuto collaborare con università ed enti di ricerca, docenti, ricercatori e così via.

L’impressione fulgida che ho davanti agli occhi è sempre quella di due mondi che hanno bisogno l’uno dell’altro ma che faticano a parlarsi, a comprendersi, e che spesso vivono “sfasati” a livello temporale.

Ancora mi risuonano nelle orecchie gli appelli accorati degli imprenditori del Nord Est del Paese, ma anche della Puglia, per esempio, che richiedono a gran voce personale debitamente formato anche solo a livello tecnico, dalla scuola superiore… e che invece si ritrova personale che deve partire da zero, che deve essere formato internamente. La lamentela non è riferita all’investimento di tempo e denaro correlata alle competenze da passare ai giovani, ma alla perdita che questo genera a livello di competitività. Penso alla nautica, alle concerie, a nicchie di mercato che rappresentano il fiore all’occhiello dell’industria del Paese e non riescono a esplodere al meglio il loro potenziale anche per questo motivo.

Dall’altra parte, in alcuni settori universitari la ricerca è talmente avanti da non trovare i giusti sbocchi nel momento in cui tenta di uscire dal mondo accademico e prova a camminare con le sue gambe.

Parliamo anche dei progetti davvero di buona qualità che escono dalle università, vengono presentati agli stakeholder, sono interessanti e pronti da implementare… ma poi si fermano per la poca lungimiranza degli investitori. Capita anche questo.

La domanda è: funziona in questo modo il trasferimento tecnologico nel nostro Paese? È ancorato ai veri bisogni delle aziende? Oppure è un tentativo “magico” che non porta risultati concreti al Pil?

I dati confermano questa sensazione: secondo il 16° Rapporto annuale Netval – Network per la Valorizzazione della Ricerca, anno 2020, le università non stanno per niente a guardare: stiamo parlando di “355 addetti (equivalente a tempo pieno-ETP) degli Uffici di Trasferimento Tecnologico di università ed enti pubblici di ricerca (pari ad un valore medio di 5,6 unità, anno 2018. Nel 2016 la media era di 4,8)”. Inoltre, sempre nello stesso anno “sono state costituite 127 imprese spin-off, un valore in aumento rispetto alle 120 del 2017 e alle 113 del 2016”.

Ci sono le idee, gli strumenti, le competenze: tutto pare funzionare. Almeno sulla carta.

Ora resta da capire se gli spin-off arrivino anche in quelle nicchie di industria che disperatamente ricercano professionisti preparati. E se gli stessi riescano ad aiutare il Paese a raggiungere le sfide che tutti i Piani della ripresa ci stanno ponendo davanti: penso al primo e a quello a me più caro, indicato dal ministro Colao: “L’obiettivo di raggiungere il 100% delle famiglie e delle imprese italiane con reti a banda ultra-larga e  raggiungere almeno l’80% dei servizi pubblici erogati online entro il 2026”.

Questo impegno non ha colorazioni azzurre o rosa, per fortuna. Tutti sono chiamati a mettere le proprie competenze a disposizione del sistema-Italia e a farlo nel migliore dei modi; ciascuno con la propria sensibilità e soft skill a corredo.

D’altra parte, l’uscita dal pantano-Covid è una sfida epocale che deve coinvolgere chiunque… non possiamo permetterci antipatie o gelosie di sorta tra modelli maschili e femminili di gestione di idee e risorse. Il Paese ha bisogno di noi, adesso.