Intervista su Sapiens, di Gabriele Ferraresi – Foto: Gianna Martinengo © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Piemontese, schiva e con un grande senso del dovere. Così si descrive Gianna Martinengo, 74 anni, da più di trenta ai vertici dell’innovazione e dell’imprenditoria femminile.

Pionieristiche le sue intuizioni del legame tra apprendimento e tecnologia, ha fondato numerose start-up in Italia e all’estero, sviluppando più di 800 progetti nei settori dell’impresa, dell’internazionalizzazione e dell’innovazione tecnologica e sociale. Nel 1983 fonda Didael, la prima “Web knowledge company” italiana, dove attualmente ricopre la carica di Presidente.

Oltre a tutto questo porta avanti dal 1999 un impegno costante al sostegno delle donne per risolvere e mettere in luce problemi come il gender pay gap. Nel 2009 fonda l’Associazione Donne e Tecnologie per abbattere uno dei grandi stereotipi spesso attribuito al mondo femminile: la tecnologia non è cosa per donne.

Chi è Gianna Martinengo?
Mi piace questa domanda, me lo domando ancora, nonostante la mia età, tutti i giorni. Sono una persona molto tenace, molto affidabile, un po’ troppo pignola: che si aggrappa continuamente a valori che le hanno insegnato e che difendo strenuamente.

Quali valori?
La fedeltà, il rispetto: soprattutto di me stessa e di conseguenza degli altri.

Di te si sa poco, ma so che sei stata a Stanford e a Palo Alto in periodi incredibili. Come ci sei arrivata?
Ho avuto la fortuna di avere degli insegnanti che mi hanno trasferito la voglia di imparare, e ancora oggi, se non conosco qualcosa, lo approfondisco. Una volta laureata, nonostante la proposta del mio professore di fare carriera accademica, ho cominciato a insegnare in modo tale da avere uno stipendio fisso. Nel frattempo avevo avuto due figli. Nel 1981 poi la mia vita cambia completamente: dopo la perdita di mio padre avevo capito che il mio matrimonio non poteva continuare, e mi chiedevo: “Ma adesso che ho 38 anni, voglio che il resto della mia vita sia questa?”.

Ovviamente la risposta è stata “No”
Era “il momento in cui si guarda l’erba dalla parte delle radici”, e tutto il castello che mi ero costruita sembrava essere crollato. Avevo deciso per caso di partecipare a un bando emesso dall’Istituto di matematica delle Scienze Sociali di Stanford, in cui cercavano persone con le mie competenze. Ero laureata in lingue straniere, avevo fatto delle specializzazioni in psicologia cognitiva e anche un corso di specializzazione sulla pedagogia e sull’apprendimento dei bambini. Da lì sono ripartita – anche se la mia storia con Stanford nasceva dieci anni prima; nel 1971 ero andata a visitare le prime teaching machine.

Che aria si respirava ai tempi  a Stanford?
È stato il periodo più bello della mia vita. Io lavoravo all’Istituto di Matematica per le Scienze Sociali con Patrick Suppes e Mario Zanotti; loro avevano fondato una startup di 800 ricercatori… pensa agli investimenti, quelli veri, non quelli di cui si sente parlare oggi. La straordinaria esperienza di quei tempi era alimentata da un clima incredibile.

L’aria che si respirava in Silicon Valley negli anni ’80… avessi avuto un garage magari non sarei stata qui oggi.

Un momento pionieristico
Vedi questa stanza? Il calcolatore era grande il triplo: conteneva quello che oggi ti sta nel palmo di una mano o in un orologio. La storia nasce da lì. L’esperienza di Stanford è stata straordinaria. Ho collaborato con loro fino al 1997.

Ti rendevi conto che lì stava cambiando la storia?
Me ne sono accorta, sai da che cosa? Quando facevamo le prime sperimentazioni a distanza usando il minitel francese. Poter operare su un computer andava bene, avevo delle basi sufficienti per capire, erano cose che avevo studiato, però il fatto di potermi collegare con il minitel con i colleghi francesi, mi ha fatto scattare quella che è diventata la storia della mia vita professionale, della mia azienda. Tornata in Italia ho fondato la società che si chiamava in quel momento Didattica con Elaboratore, la cui missione era “Dialogo e interazione tra persone mediata dalla tecnologia”.

Tutte le attività umane di oggi sono integrate con la tecnologia, non riusciamo a separarle. Mi ero resa conto che questo sarebbe stato il futuro.

Una frase che dicevi era: “Discover, share, empower”. Ci avete preso
Oggi abbiamo aggiunto una cosa che sento molto e che aggiungerei a quella: “Inspired by users and driven by science”, questa è più attuale. L’altra è vera. Non lo pensavamo: siamo arrivati troppo presto, e l’arrivare troppo presto è stato come arrivare troppo tardi. Ci sono state alcune situazioni nella storia imprenditoriale che mi hanno molto deluso come cittadina: la più grossa è stata la costruzione della città dell’innovazione a Cagliari. Era il 1997. C’erano tutte le possibilità per far crescere nel Mediterraneo e in Italia un centro straordinario; avevano scelto persone che erano al massimo della competenza. Ma è andata diversamente, una grande delusione.

Ti definisci un’umanista tecnologa. Ovvero?
All’inizio molti non capivano; dicevo che ci sarebbero voluti ingegneri colti e umaniste tecnologhe. Ma erano altri anni, le donne studiavano quasi solo materie umanistiche. Diciamo che un’umanista tecnologa è una persona che si serve delle competenze legate alle scienze umane – parlo della semiotica, della psicologia cognitiva, della filosofia del linguaggio, della pragmatica del discorso. Oggi ogni attività che svolgiamo mediata dalla tecnologia è una conversazione; che poi sia una conversazione tra persone, o tra agenti umani e agenti automatici è sempre una conversazione. Vero? D’altra parte però queste competenze non bastano, se non hai la capacità di astrazione: che è ciò che si impara grazie all’informatica.

Parliamo del tuo presente: cos’è Women and Technologies?
Avendo avuto nel 1968 il mio primo figlio non ho potuto fare la femminista! Nel 1999 però partecipai a un convegno in regione “Pari sarà lei”, e ai tempi tutto il tema del gender gap era per me ignoto. Ho cominciato a pensare alle poche ragazze e donne che vedevo nel mondo della tecnologia, c’era solo Marisa Belisario e non ce n’erano altre in posizioni apicali. Allora pensai che donne e tecnologia dovesse essere considerato un binomio vincente: da quel momento ho capito l’importanza di combattere lo stereotipo “La tecnologia non è cosa per donne”.

Un’altra cosa che ho letto è che non ci sono caratteristiche della leadership femminile, ma c’è uno stile
Lo stile è determinato da alcuni fattori, alcune competenze che sono innate nelle donne, poi esistono altre competenze che sono trasversali e che si possono acquisire. Sinceramente non penso che esista una leadership femminile, ma uno stile femminile di leadership sì, e sicuramente ci sono alcune caratteristiche innate nelle donne: una, che è stata provata anche scientificamente, è sicuramente l’empatia. Studi clinici dimostrano che le donne hanno una parte di cervello che produce questa magica empatia. Un’altra caratteristica tipica del genere femminile è quella di avere una visione circolare della vita. Questa visione circolare e non orizzontale ti dà un bell’aiuto, per esempio per resistere ai momenti di crisi.

Il modello maschile è più lineare
Sì, è orientato ai risultati. Questo rende gli uomini molto più fragili anche rispetto agli insuccessi. Le donne hanno sempre questa capacità di ripartire e ricostruire anche dopo i fallimenti. Io quando ho avuto un brutti periodi ho tenuto botta, tenuto duro per i miei dipendenti, ero sicura che sarebbe arrivata una svolta. Poi sicuramente le donne hanno anche una grande capacità di mediazione.

Ti piace come è diventato internet?
No, non mi piace. Oggi abbiamo un accesso a internet facilissimo. Ma la facilità di accesso è inversamente proporzionale alla difficoltà di dare valore aggiunto a quello che facciamo. Io ho avuto il privilegio di veder nascere il web, con i primi ipertesti, di cui si occupava Tim Berners Lee.
Sono preoccupata soprattutto da due cose: la prima ha a che fare con i ragazzi. Nelle scuole purtroppo, e non certo per colpa loro, gli insegnanti continuano a insegnare facendo riferimento ai vecchi modelli di insegnamento. Ma i ragazzi di oggi sono nati col web. In questi anni non c’è stato nessun approfondimento per capire come cambiano i processi di apprendimento quando hai una tecnologia in mano tutto il giorno. Perché il loro modo di imparare è diverso oggi. Nelle scuole non ci sono mai stati problemi di disturbo dell’apprendimento come negli ultimi anni.

Hai detto che bisogna avere il coraggio della sfida: chi non ha il coraggio come fa a darselo?
Allora, io non ho mai pensato di avere il coraggio della sfida, ma credo nella provvidenza. E infatti quando sono andata in America lo spunto è venuto da Mario Zanotti, che mi ha detto: “Ma guarda che la vita si può anche cambiare”. A volte basta una parola al momento giusto.

Ce l’hai fatta in un’epoca senza quote rosa, senza business angel
Va be’, diciamo che sulle quote rosa, io, come tutte le donne della mia generazione, ho avuto questo atteggiamento: basta il merito, le competenze, una visione etica. Vengo da una generazione dove se studiavi e ti impegnavi, venivi premiata, non avevi bisogno d’altro. Ti laureavi con 110 e lode ti arrivavano dieci richieste da dieci imprese.

Poi è chiaro che se un Paese non capisce l’importanza della complementarietà e dell’energia che possono esprimere donne e giovani, non c’è cultura del futuro né dell’innovazione.

Il gender pay gap è una cosa medievale: perché nel 2018 gli uomini guadagnano ancora più delle donne?
Io più che sulle quote rosa insisto su questo. Mettiamo fine a questo disastro. È un dato ignobile. Dovrebbero pagarle di più per il ruolo doppio o triplo che hanno. È vero che adesso la paternità è cambiata, ma questa è la vera sfida da combattere oggi sul piano dell’uguaglianza. Se tu a parità di lavoro non riconosci la stessa retribuzione non potrà mai esserci uguaglianza.