Troppo spesso gli adulti sottovalutano il potenziale dei bambini e dei ragazzi e anche gli strumenti che vengono utilizzati per il loro apprendimento o i loro momenti ludici (i.e. i videogame in senso lato). Basti pensare alla polemica degli scorsi giorni: nell’occhio del ciclone è finito il mondo dei fumetti (capofila Topolino) additato dai politici come “fonte” di scarsa cultura di un ministro italiano. Errore grossolano, con un intero settore dell’editoria (lettori compresi, di ogni età) che si è rivoltato e ha fatto sentire ben forte la sua voce.

Rischio analogo di sottovalutazione di uno strumento può verificarsi anche nel caso del coding, che è ben altro che “comandare a un robottino di eseguire un certo compito”.

Personalmente sono affezionata a questo tema, che ho studiato approfonditamente, da oltre 30 anni. Erano gli anni ’80 quando utilizzai per la prima volta un “elaboratore” per valutare l’apprendimento di un gruppo di 15 bambini con disabilità della scuola elementare presso la Fondazione Pro Juventute Don Carlo Gnocchi di Milano. Già al tempo, il corso, chiamato “Italiano di base”, che forniva ad ogni bambino mezzi linguistici di base per sviluppare in modo armonico il linguaggio verbale, aveva il supporto operativo di un computer Olivetti M20 ST, che si poneva come “ponte” tra il bambino, l’apprendimento e la verifica di quanto appreso.

In quegli anni vi era già molto fermento, nel mondo accademico, proprio in riferimento all’utilizzo di questi nuovi “oggetti”, i computer, nei sistemi educativi e nella società tutta.

Punto di svolta della mia carriera fu, nel 1985, la presentazione dei risultati della sperimentazione di “Italiano di Base” alla Conferenza Internazionale: “Children in an Information Age: tomorrow’s problem today” di Varna, in Bulgaria. Ebbi modo, proprio in quell’occasione, di confrontarmi e attingere alle idee dell’americano Seymour Papert, matematico, informatico e pedagogista che, ispirandosi alle teorie di Jean Piaget e Maria Montessori, aveva ipotizzato la possibilità che la programmazione di un computer potesse diventare proprio un mezzo didattico. Per rendere concreta questa congettura, Papert aveva inventato un linguaggio: LOGO, che permetteva di realizzare e misurare l’apprendimento nei bambini facendoli programmare i movimenti di una tartaruga virtuale.

Ecco già in nuce, e predisposto con solide basi scientifiche, quella che oggi chiamiamo compiutamente robotica educativa, che nel caso di Didael KTS si estrinseca nel prodotto “Giocoso-Insegno e imparo giocando”, rivolto agli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria e ai genitori (per saperne di più: https://www.didaelkts.it/progetto/giocoso-requisiti-per-la-lettura-e-la-scrittura/).

Inoltre, forte della mia esperienza e sicura del ruolo essenziale della robotica educativa per un apprendimento armonico e per una migliore conoscenza del mondo, ho sostenuto, come fondatrice di Women&Technologies, attività e iniziative volte proprio a sensibilizzare adulti e bambini al tema, come RobotLab, laboratori di robotica per avvicinare bambini e ragazzi al pensiero computazionale.

Perché, ancor più di 30 anni fa, è fondamentale sostenere il coding come esercizio che i bambini possono svolgere, e che ha importanti riflessi positivi sulla loro crescita? Perché attraverso questa modalità sviluppano la capacità di astrazione, la creatività, imparano a utilizzare il pensiero logico, ad esprimere le proprie idee in modo compiuto e organizzato; provando e riprovando, sino al successo dell’operazione, comprendono l’importanza dell’esercitarsi e del raggiungimento di un obiettivo prefissato (aumentando anche la capacità di resilienza di fronte a un ostacolo). Non solo: si esercitano a semplificare le idee e a fare in modo che queste siano comprensibili anche per chi sta loro attorno (compagni, insegnanti).

Capacità di problem solving, di organizzazione, di comunicazione, di focalizzazione: tutte queste competenze vengono messe sul tavolo in modo soft, mentre i bambini “giocano” a guidare un robot a cui stanno dando vita.

Sostanzialmente, e sinteticamente, grazie al coding i bambini imparano a comprendere meglio il mondo, sia quello presente che quello che li attende, in modo divertente e alla loro portata.

Questo mio amore per il coding è anche frutto di un’attenta osservazione della realtà: la tecnologia è parte integrante della vita di un bambino, a partire dalla sua nascita. L’uso dei device (fonte: Tech Addiction) è in crescita iperbolica a partire dai 2-4 anni; il primo cellulare arriva a 12 anni (per i Millennials era a 16 anni); l’uso di Internet è comune ancor prima dell’inizio della scuola dell’infanzia: videogame e tv sono utilizzati quotidianamente e in maniera massiva dai bambini di 8-10 anni. A 8 anni i bambini sono già stati esposti – e usano – a tv (96%), computer (90%), videogame (81%), device mobile (60%). Pensare, dunque, che siano, perché giovani, “avulsi” dal contesto tecnologico, è anacronistico e anche dannoso. Il coding e la robotica educativa tutta non fanno che “entrare”, con un linguaggio familiare, nella vita di bambini e ragazzi, aiutando il loro apprendimento – anche in riferimento ai BES, Bisogni Educativi Speciali – e favorendo lo sviluppo armonico delle loro abilità di base. Preparandoli, peraltro, alle nuove professioni del futuro.