Il tema di genere entra a gamba tesissima anche nella lingua italiana e nelle sue più recenti evoluzioni, come bene viene spiegato da Cecilia Robustelli in diverse occasioni.
Mentre a lei lascio il delicato compito di spiegare proprio come le parole – declinate al femminile – sostanzino la realtà dei fatti, e quanta strada ci sia ancora da percorrere per dare alle donne il giusto peso nella società, il giusto posto, il giusto tributo, io desidero soffermarmi su un aspetto che ci riguarda tutte da molto vicino.

Il mondo ha bisogno del genio femminile nella sua specificità non tanto per ammantare la realtà di rosa, ma per regalarle una visione che, in quanto complementare, porta alla completezza.
La presenza di professioniste donne, in tutti gli ambiti, e con forza anche in quello delle materie STEM e in tutto il settore della tecnologia e del digitale, è essenziale e cogente.
È una questione di competenze, di soft skill messe a disposizione di problemi altamente complessi. Di un modo di lavorare e ragionare che prevede maggiormente l’inclusione e che dunque può risultare molto più efficace.
Se questo dato è concreto, per quale motivo non solo non si riesce a sdoganare il termine “architetta”, ma non si riescono a far emergere i talenti delle donne?
Quante professioniste fanno parte del Comitato Tecnico Scientifico dedicato al Covid?
Quante donne facevano inizialmente parte della Task Force di Colao, sempre in tema Covid?
Sono proprio necessarie task force al femminile “in più” rispetto a quelle maschili?

La difficoltà resta sempre la stessa: farsi notare, farsi ammettere ai tavoli che contano, farsi chiamare nel giusto modo (che non è un “di cui”, in una situazione del genere, ma una necessità in quanto la forma è la sostanza!) e mostrare la propria competenza e metterla al servizio di chi potrebbe averne realmente bisogno.

Mentre in alcuni settori, che stiamo raccontando in questi mesi, vi sono “sussulti” di protagonismo positivo da parte delle donne, in altri vi è un incredibile ritardo, che fa indignare.
Alla base vi è ancora un’idea arretrata del genere femminile, che si mostra in tutta la sua becera rudezza per esempio sui Social, ma anche – ancora! – in alcune trasmissioni televisive.
Siamo sempre stati dalla parte dell’uso consapevole degli strumenti digitali, estremamente positivi in quanto capaci di abbattere le barriere tra gli individui, a livello di censo, di sesso, di età… ma dobbiamo rimarcare in questa sede quanto sia necessaria una educazione specifica anche in questo campo.
Inutile disquisire di professioni declinate sulla carta al maschile o al femminile se, poi, anche tra i giovani, le attribuzioni legate alle donne fanno riferimento unicamente all’aspetto fisico, se attraverso i clic sui Social passano il body shaming o gli insulti alle professoresse (e non ai professori), alle allevatrici di pecore uccise, alle virologhe e così via.
Come si esce da questa spirale? Con una corretta educazione che parta dalle famiglie e si sviluppi a scuola; con un uso dei Social che deve essere ben spiegato, non “intuito”; con una politica più inclusiva che dia spazio a donne con comprovate competenze (come capita con i colleghi uomini, niente di più, niente di meno).

Su tutto, non va dimenticato che in questi ultimi anni stiamo assistendo a un impoverimento della lingua italiana: parliamo solo al presente, non usiamo il condizionale, tramettiamo le emozioni con gli emoticon. Come se non avessimo una storia né la capacità di raccontarla con parole nostre.
Ridurre la ricchezza linguistica significa anche ridurre la capacità di pensare, di sognare, di immaginare nuovi mondi, al maschile o al femminile non importa. Facciamo attenzione.