Intervento di Gianna Martinengo in occasione dell’incontro che si è tenuto in streaming nel mese di dicembre organizzato dalla Fondazione Giovanni Goria e dalla Fondazione Carlo Donat-Cattin. Tra i relatori anche David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, e Sergio Chiamparino, ex governatore del Piemonte e consigliere regionale Pd. Spunto del convegno il saggio di Giorgio Merlo edito da Marcianum, dal titolo “Politica, competenza e classe dirigente”.

La mia esperienza mi porta a vedere sia la politica che le competenze sotto il profilo dell’innovazione, che è da sempre il mio raggio d’azione. Intendo con il termine “innovazione” sia un’innovazione tecnologica, che un’innovazione sociale. Entrambe hanno o dovrebbero avere la persona al centro.

Fare innovazione significa capire, prevedere ed investire in direzioni finora non del tutto esplorate ma potenzialmente proficue. Questo è sempre stato il mio agire come imprenditrice impegnata nell’ambito delle tecnologie. Capire e prevedere sono funzioni tipiche dell’intelligenza umana, esattamente come è il caso dell’attività scientifica, che storicamente ha permesso alle società umane di capire e prevedere i fenomeni naturali. Investire è invece una tipica attività dell’imprenditore, che rischia e costruisce nuovi prodotti o nuovi servizi.  

La politica ha il compito di gestire la cosa pubblica e lo può fare (esattamente come le imprese) in due modi: privilegiando l’etica collettiva oppure l’interesse personale.

Cosa vediamo, attorno a noi, se osserviamo con attenzione? Che nel nostro Paese, storicamente, ci sono stati troppi casi di corruzione. E non sto parlando solo dell’ingerenza delle mafie nella cosa pubblica, ma dell’assenza di regole trasparenti di gestione sia nel pubblico che nel privato.

Nel mondo del lavoro attuale e futuro è inevitabile innovare, con intelligenza, per capire e prevedere, ma anche con le competenze che permettono di passare dalla comprensione-previsione alla costruzione di prodotti e servizi da parte delle imprese.

La cultura digitale che sostengo fortemente da molti anni, opera da catalizzatore per infrangere molte classiche barriere, come abbiamo visto durante la pandemia. Accettare, adottare e privilegiare la cultura digitale significa adattarsi ai necessari cambiamenti anche radicali che essa comporta in modo di sfruttare tutti i vantaggi che non sono solo di ottimizzazione dei processi ma soprattutto di riforma degli stessi nel senso della trasparenza.  

Tutti possono (e devono) sviluppare competenze adeguate a questi processi, ma non siamo tutti uguali e dunque si pone il problema delle sinergie fra individui diversi, fra imprese diverse. Assieme alla competizione, elemento necessario di selezione oltre che in economia anche in natura, come giustamente aveva capito Darwin, c’è la collaborazione, la sinergia: per questo è indispensabile capirsi. Guarda caso, collaborazione e competizione sono anche i motori storici della più avanzata attività umana, che è la costruzione scientifica.

Molti pensano che la cultura digitale sia un semplice scambio di informazioni tra macchine evolute. Se così fosse, con la banda larga e qualche supercalcolatore in più il problema sarebbe risolto. Questa interpretazione sarebbe molto riduttiva se non fuorviante, ricordando che abbiamo esordito dicendo che l’uomo resta al centro dell’innovazione sia tecnologica che sociale. Per questo diventa necessario integrare nei processi di riforma legati alla cosiddetta digitalizzazione (o informatizzazione) proprietà tipiche della vita sociale umana come: interazione, dialogo e conversazione, reputazione, partecipazione, formazione, apprendimento. 

Nella mia esperienza, innovazione tecnologica e innovazione sociale non sono scindibili; al contrario, sono sinergiche; il concetto di innovazione non può prescindere da un comportamento etico. Il digitale è una leva straordinaria per l’empowerment, per l’abbattimento delle disuguaglianze e lo sviluppo delle comunità. Nella società che segue la pandemia, tutti nel villaggio globale hanno vissuto un aspetto prima solo tipico di comunità marginali: l’isolamento. Per la prima volta, la tecnologia informatica non solo è stata utile a migliorare la vita di tutti, ma è stata essenziale per la sopravvivenza di ciascuno.

L’innovazione tecnologica e sociale non vive nella dimensione dell’irrealtà, è calata attorno a noi, è parte del nostro agire quotidiano. Ci rende interconnessi, perché noi siamo parte di tante comunità, ovvero di tanti insiemi di persone unite tra loro da rapporti sociali, linguistici, morali, religiosi, famigliari, da vincoli organizzativi. Questa idea di comunità implica solidarietà, condivisione, ascolto, fiducia, inclusione e generosità.  Grazie a questi valori si riesce a realizzare l’innovazione sociale perché si soddisfano bisogni sociali come risultato collettivo di una comunità sul territorio. Il processo richiede accordi, collaborazione, condivisione, dialogo e comportamenti innovativi da parte di tutti gli attori, non esagerati personalismi, non egoismi basati sulla ricerca del successo, dell’affermazione personale, di un ritorno economico.

Le comunità, come abbiamo capito per motivi di forza maggiore, possono anche essere anche virtuali: luoghi in cui persone con gli stessi interessi si scambiano idee e progettano, collaborano e perseguono finalità comuni. Vi è un’idea sottesa molto bella, che mi piace condividere: in questa mia visione essere parte di una comunità significa mettere in comune risorse, persone, conoscenze ed esperienze finalizzate ad un obiettivo comune (per la sostenibilità ambientale, per la salute, per il buon andamento della propria azienda…).

Ebbene, se viviamo in comunità, interrelati tra noi, se abbiamo l’etica come fondamento della nostra società, credo sia arrivato il momento di ridare voce alle competenze anche in ambito politico e specie in riferimento alla scelta della classe dirigente. Il Covid e le sue conseguenze ci stanno insegnando che questo non è più il tempo delle scelte basate solo sulla cooptazione personale. Per risollevare il Paese, ma anche per rialzare lo spirito della politica, occorre la qualità delle scelte e della gestione dei processi, cioè le capacità insite nei veri leader.

Quali sono queste competenze?

Credo che la competenza più importante sia poco nota, ma assai rilevante: mi riferisco alla capacità di selezionare tra segnale e rumore, ovvero alla capacità di ascoltare gli altri per capire dove evolve il mondo, di lasciarsi ispirare dagli altri, anche per anticipare – e non inseguire – i fenomeni sociali. Immaginate la potenza dell’alzare lo sguardo, dell’uscire dalla nostra esperienza e guardare le cose   come se fosse la prima volta. Quanti nuovi punti di vista rilevanti riusciremmo a intercettare? Lo sappiamo tutti: quando la mente si apre… non si è più gli stessi.

In merito alle competenze, dunque, mi lascio ispirare dalla Società della Conoscenza, che è quella che personalmente sostengo da oltre 30 anni, che si fonda non solo sulla tecnologia, ma anche sulle competenze ad essa correlate e sulla capacità del binomio tecnologie-competenze di favorire un miglioramento complessivo delle condizioni di lavoro, dei processi industriali, della qualità della vita anche delle fasce deboli della società.

In questo ambito, che possiamo usare come base su cui costruire per esempio la preparazione di una nuova classe dirigente, sono presenti competenze di base, tecnico professionali e trasversali. Le competenze di base sono ovviamente il substrato su cui si innestano quelle tecnico professionali e quelle trasversali. Queste ultime sono le più preziose, anche per la politica, perché implicano la capacità di affrontare un ambiente o un contesto e prendere le giuste decisioni; la capacità di diagnosticare e prevedere, come già detto, ciò che si potrà verificare; di stabilire relazioni corrette con l’ambiente, le persone e le cose in un certo contesto (abilità interpersonali e sociali, abilità emozionali, cognitive, stili di comportamento, abilità comunicative).

Una persona dotata di competenze trasversali riuscirà a gestire meglio le situazioni complesse, ascolterà l’intuito e la creatività, saprà interpretare e spiegare la realtà e riconoscere e rimuovere i pregiudizi, mantenendo alta la capacità di apprendere anche in età avanzata.

Dovessi sintetizzare le competenze indispensabili in questo momento alla politica italiana, direi sicuramente negoziazione, capacità di “ascolto”, capacità di gestione dei conflitti. Attenzione: parlo di “ascolto” ma non intendo ascolto dei sondaggi o delle previsioni commerciali, o delle specifiche di un progettista, piuttosto intendo l’ascolto dei bisogni profondi dei cittadini che quasi sempre non sono manifesti, espliciti, ma soltanto impliciti. Ascolto, cioè, nel senso di atteggiamento umile, curioso, disponibile a lasciarsi ispirare dalla osservazione degli altri. Ascolto nel senso di visione ambiziosa e modesta del futuro. Auspico che alla guida del Paese giungano persone dotate di un forte pensiero critico e di una buona intelligenza emotiva. E spero che si possa tornare alla selezione della classe dirigente per competenza e non per cooptazione.

Lo straordinario sviluppo politico dell’Unione Europea, per la prima volta nella sua storia, ha permesso all’Unione di distribuire risorse non in quota parte, ma secondo i bisogni reali dei Paesi membri. Oggi ci sono 200 Miliardi da investire in Italia (non da spendere) sotto il controllo europeo: non è tanto importante sapere cosa si fa e perché – oggi tutti sembrano parlare solo di questo -, ma soprattutto COME: senza corruzione, non tenendo conto dell’interesse individuale bensì di quello collettivo. Questo, per me, significa privilegiare le competenze, cioè la trasparenza. La strada non è da tracciare, basta semplicemente riadattare all’Italia quanto si sta già attuando da anni proprio a livello di Unione Europea, con gare internazionali, scelte di comitati indipendenti, processi trasparenti di gestione e di valutazione dei risultati.

Credo, in conclusione, che etica e politica, così come etica e business, non possano essere mai slegate. Vi invito a dubitare fortemente di coloro che perseguono il business o l’arrivismo politico senza pensare al bene comune. Per coloro che avessero ancora dei dubbi, basta osservare onestamente ed umilmente i dati: i Paesi, le comunità con minore corruzione e più etica collettiva sono anche le più prospere, anche all’interno dell’Unione. Almeno nel mondo “libero”, un altro valore essenziale al quale per noi tutti sarebbe impossibile rinunciare.