Nel 2006, in occasione dell’assegnazione a Milano della sede dell’Agenzia nazionale per l’Innovazione, ebbi modo di confrontarmi su tre argomenti tra loro connessi: innovazione, giovani, mercato. Le considerazioni sono ancora oggi valide e di seguito le ripropongo, perchè forse oggi più di allora si tratta di identificare priorità e scelte fondamentali comuni nel momento della realizzazione del Piano Nazionale PNRR.

Aggiungo questi interrogativi che fungono anche da stimolo per la lettura:

  • Come vogliamo ridisegnare, da adesso in poi, la nostra società?
  • Quale ruolo ricoprirà l’Innovazione tecnologica, in particolare quella informatica e digitale?
  • Come potranno i giovani entrare nel mondo del lavoro e seguirne le direttrici vincenti?

In tutto questo: come si potranno integrare al meglio le competenze dei senior con l’entusiasmo e le nuove competenze dei junior?

Il dibattito, dopo ben 15 anni, è ancora aperto e le osservazioni che seguono, pubblicate quindici anni fa e non modificate , sono di una attualità sconcertante, anche se forse un aggiornamento sarebbe richiesto, considerando anche opportunità e rischi indotti dalla nuova realtà europea.

Gianna Martinengo

Innovazione digitale connessa alla gestione dei contenuti, dunque alla Società dell’Informazione e della Conoscenza.

L’innovazione digitale troppo spesso è stata considerata “indipendente” dai contenuti. Includere i contenuti erroneamente è stato considerato non già condizione necessaria per il successo dell’innovazione tecnologica, ma eventualmente elemento utile nel suo uso, a carico naturalmente del consumatore di innovazione, non del produttore: questo è l’errore storico. Ora, la stessa cosa capita agli incidenti aerei e agli incidenti nucleari: si scopre sempre troppo tardi che tutto l’impegno dedicato a perfezionare le tecnologie fallisce clamorosamente quando il loro uso da parte degli umani non è perfettamente adeguato. L’innovazione ICT (Information, Communication Technologies), analogamente, non è inventare o introdurre prodotti o processi “innovativi”, ma ridisegnare l’organizzazione del lavoro in tutto il suo ciclo, in funzione delle potenzialità continuamente proposte o proponibili da parte delle tecnologie ICT. Lo sviluppo di un nuovo prodotto o servizio ICT non ha molto senso, se non tiene conto degli elementi socio-economici e culturali della organizzazione del lavoro, il contesto dell’uso. Questo NON può essere a carico del solo consumatore di innovazione (che non sa nulla delle potenzialità tecnologiche), ma soprattutto del produttore. Dunque una questione che richiede (in chi propone innovazione) una profonda cultura, oltre alle note competenze tecniche.

Il potenziale dei giovani

Questa profonda cultura alcuni giovani ce l’hanno. Non tutti. Non è l’età che conta, ma le competenze. L’innovazione nel senso detto (riforma continua dell’organizzazione del lavoro in adeguazione con le tecnologie disponibili e-o realizzabili) usa junior e senior allo stesso modo. Senza contare che le imprese di ICT sono in molti casi giovani, dunque non è necessario avere delle start-up per avere dei giovani. D’altra parte, è necessario guardare alle imprese esistenti sul mercato per trovare qualche senior adeguato a “capire” bene, al di là dei gadget, come adeguare l’innovazione digitale al contesto dell’uso.

Studenti, ricercatori, professori, start-up, imprese… Tutti orientati all’innovazione, tutti potenziali innovatori. Ma con differenti ruoli. Il nostro, come tutti sanno, è uno strano Paese: la ricerca scientifica la si fa con il cappello dell’impresa (quanti professori competono su fondi di ricerca attraverso loro proprie imprese?) e il mercato lo si fa nelle università (quanti industriali sono nominati professori a contratto e diffondono il loro messaggio ai nostri studenti?). Ora, mescolare impresa, ricerca, insegnamento è una cosa ottima. A una sola semplice banale ovvia limpida condizione: che si sappia chi fa cosa quando e perchè. Nessun conflitto di interessi: se industria, allora non ricerca, ma mercato. Se ricerca, allora non mercato. L’insegnamento lo possono fare tutti: sarebbe meglio che nelle università la maggioranza dei docenti fosse scientificamente attiva, cosa che avviene abbastanza bene (soprattutto grazie ai giovani docenti). Un solo cappello alla volta, per tutti, per ciascuno, per favore. Un comportamento diverso si chiama concorrenza sleale e conflitto di interessi: la ricerca non cresce ed il mercato neppure.

Dove va il mercato?

Un’ultima osservazione sulla natura del mercato italiano in rapporto all’innovazione ICT. Ci sono due classi di acquirenti: le Istituzioni (imprese, enti) ed il consumatore finale. L’innovazione ICT italiana non ha molte chance di essere competitiva nei confronti del mercato consumer, a parte qualche nicchia legata alla specificità della lingua e della cultura. Sicuramente l’interazione fra tecnologie e contenuti (dunque il carisma degli “ingegneri colti” o degli “umanisti tecnologi”) apre qualche spazio all’innovazione ICT nel nostro Paese, ad esempio nella nicchia dei servizi offerti dai siti Web innovativi. L’innovazione solo tecnologica italiana è fuori mercato. Sfortunatamente, da anni abbiamo perso la battaglia del software e non ci resta che cercare di conservare qualche spazio sui servizi. Il mercato istituzionale italiano nel settore ICT è spesso molto partigiano: manca la cultura della diffusione dell’innovazione; i decisori raramente hanno la tradizione di capire e dunque, non capendo, si fidano degli amici. La funzione fondamentale dell’economia di mercato, cioè la competizione sul valore del prodotto o del servizio, è spesso offuscata dalla mancanza di capacità di valutazione. L’Italia paga la scelta fatta di importare l’innovazione senza produrla: per questo motivo è sistematicamente in ritardo almeno dei tempi tecnici indispensabili fra ricerca e implementazione innovativa. Per invertire la tendenza occorrerebbero anni di divulgazione e di priorità alla ricerca in tutte le sue forme. Si tratta di valutare se l’assenza di un vero mercato competitivo dell’innovazione tecnologica nelle istituzioni italiane ha costi sostenibili per l’intero sistema delle imprese oppure diventa la causa di problemi inaccettabili per lo sviluppo anche dei settori imprenditoriali a medio valore aggiunto.