Cosa fa, di solito, l’imprenditore smart e illuminato? Osserva i vari mercati, numeri alla mano; controlla le proiezioni per gli anni successivi; studia gli eventuali investimenti da porre in essere, i benefici fiscali, il marketing per attrarre i clienti. Poi, deciso e speranzoso parte, ossia sceglie il mercato più promettente e decide di impegnarsi in un progetto di valore. Se tutti i passaggi appena descritti sono stati effettuati con intelligenza, l’azienda inizia a performare, per il bene dell’imprenditore, dei dipendenti, dei clienti. Questa situazione, anche nella fase post-crisi che sta vivendo il nostro Paese, è una concreta possibilità. Ovvero: è possibile che ci siano mercati non saturi, non stanchi, non caratterizzati dal perenne segno meno. È possibile pensare di poter fatturare e marginare e far crescere l’economia. Perché, allora, pochi lo fanno?

Ci riferiamo al comparto delle digital companies italiane. Come vanno? Tutte bene. Quante sono? Tante, ma non abbastanza. Possibile? Pare di sì. I dati (presentati in occasione dell’Assemblea dei presidenti delle Camere di commercio italiane), davvero interlocutori – se si ha voglia di porsi il problema! – ci mostrano che si sta parlando di 122 mila azienda (solo il 2,3% del totale delle imprese italiane); il comparto cresce del 2,4%, ossia quattro volte più della media delle imprese italiane. Non solo: negli ultimi due anni il valore della produzione è cresciuto a ritmi doppi rispetto agli altri settori e il valore aggiunto del 50%. Infine: stiamo parlando di imprenditori giovani, con meno di 35 anni, capaci di dare lavoro in media a 5,4 addetti (4,5 la media delle altre imprese). Aria fresca, per un Paese asfittico, che adesso non potrà più nemmeno deliziarsi con i risultati della Nazionale ai Mondiali di Calcio.

Quindi, ricapitolando: il comparto delle aziende digitali è fresco e vivace e capace di trainare le altre imprese: segno che c’è “fame” di digitalizzazione, nel nostro Paese. Una fame non completamente soddisfatta. Una fame che potrebbe farsi preoccupante, simil-carestia, se si pensa che l’Industria 4.0 è già qui, davanti a noi, con le sue mille opportunità. Ma se non siamo in grado di strutturarci tecnologicamente, come potremo sfruttare queste nuove potenzialità offerte dall’automazione?

È come se, a livello Paese, fossimo condannati da una parte ad avere slanci in avanti che ci proiettano nel quarto millennio, dall’altra a non riuscire a connetterci a Internet nel centro di Milano perché il segnale wi-fi è debole. O troppa tecnologia, o zero tecnologia. Iperspecializzazione contro informatizzazione senza un obiettivo strategico.

Queste 122 mila aziende – tra cui Didael KTS – che operano nei settori digitali (commercio via Internet, Internet service provider, produttori di software, elaborazione e gestione dati o portali web) rappresentano l’ossatura in grado di sostenere lo sviluppo del Paese e sono in grado di connetterci con le tematiche dell’Industria 4.0. L’analisi dei Big Data, l’Intelligenza Artificiale, Internet delle cose, il Machine Learning sono già oggi disponibili e integrabili delle aziende degli altri settori.

Pensate di poterne fare a meno? Pensate che il vostro cliente non sia “toccato” dal tema della personalizzazione e customizzazione spinta dei vostri prodotti? Fate male, perché il cliente è pronto, più di voi, a farsi sedurre da questa nuova e ingaggiante frontiera.

L’esperienza di Didael KTS mi ha insegnato proprio questo: la tecnologia rappresenta un volano, per la conoscenza, per l’economia, per l’inclusione sociale. Sta a noi decidere se trasformare l’opportunità in progetti concreti. E soprattutto sta a noi “scuotere” il Paese se ci accorgiamo che sta per perdere il treno dell’innovazione (in questo caso dell’Industria 4.0).

Gianna Martinengo