Nelle scorse settimane, l’ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda – persona che stimo e con la quale mi trovo  a volte in sintonia – è stato protagonista di una polemica che è rimbalzata da Twitter ai media tradizionali. Oggetto: la portata negativa dei videogame. In uno scambio di tweet l’ex ministro dettaglia la posizione come segue: “Fondamentale prendersi cura di ogni ragazzo: avvio alla lettura, lingue, sport, gioco. Salvarli dai giochi elettronici e dalla solitudine culturale e esistenziale. Così si rifondano le democrazie”.

Queste considerazioni sono certamente condivisibili, specie quando si parla del “prendersi cura” stimolando i giovani alla lettura, allo sport, alle lingue. Ovverosia: renderli curiosi delle cose del mondo.

Il discorso va però approfondito per evitare di disaccoppiare i videogame e la cultura.

Il mio approccio al gaming e ai videogame è quello che adotto per ogni altro ambito professionale e di ricerca: “Meno conoscenza e più paura”- Anche in questo caso lo slogan è perfetto, per ricordare a tutti, esperti e meno esperti, che quando si parla di videogame non si fa più riferimento agli “sparatutto”, ai giochi in cui non sono richieste particolari abilità se non quelle di spostare il joystick e mandare Cristiano Ronaldo in goal a porta vuota, ma a giochi evoluti, intelligenti, capaci di generare interazione e far aumentare le competenze. Per questo la posizione di chiusura nei confronti di questo intero settore è poco lungimirante. È bene conoscere, poi, nel caso, prendere le distanze.

Il gioco – nelle sue forme intelligenti – è da sempre legato strettamente all’apprendimento. Sin dalla metà degli anni Ottanta ho evidenziato questa correlazione. E oggi posso confermare come le intuizioni di allora fossero corrette e fondate: le diverse competenze dei bambini e dei ragazzi possono essere attivate attraverso la gamification. E il discorso riguarda anche i bambini con problemi di apprendimento o con bisogni educativi speciali (Bes).

Il tema videogame, pertanto, è più complesso di quanto raccontato dall’ex ministro. E lavora su più livelli.

Il primo: se ben impostato, il videogioco – si pensi alla sfida di risolvere un quesito/problema per arrivare a un certo obiettivo, il tutto inserito magari in un contesto da narrazione “gialla” – stimola la curiosità, può essere modulato su più livelli-obiettivi che possono essere verificati e misurati (per esempio dai docenti).

Il secondo: la gamification, intesa come modalità che stimola le persone – anche gli adulti – a migliorare performance, abitudini, attività, a usare strumenti interattivi, adottare motivazioni rilevanti, è già utilizzata dalle aziende per coinvolgere i dipendenti. Analoghi processi possono essere, a maggior ragione, applicati allo studio e all’apprendimento dei giovanissimi: il mondo “gioco” non è sbagliato di per sé, anzi.

Il terzo: dietro ai videogame vi è il coding, applicato anche alla robotica, ossia quell’insieme di attività che i bambini e i ragazzi possono svolgere lavorando “dietro le quinte”, per programmare azioni e comportamenti che poi il gioco o il robot eseguiranno. Con la formula: “sperimento, agisco, imparo” il coding è già presente all’interno delle scuole. Anche in questo caso vogliamo dire che i giochi e tutto ciò che è “tecnologico” siano dannosi?

Il quarto: tra pochissimi anni, quando i ragazzi di oggi entreranno nel mondo del lavoro, verranno loro richieste competenze specifiche proprio nell’ambito della programmazione dei videogame (senza parlare dei temi dell’Industria 4.0). Queste competenze possono già essere coltivate ora, in modo divertente e simpatico, attraverso le mille espressioni del gioco che anche Womentech, Associazione Donne e Tecnologie che ho fondato nel 2009, propone nei suoi eventi (per saperne di più https://www.womentech.eu).

La mia riflessione non si ferma ai videogame o alla gamification: in realtà qui giunge. Il mio percorso professionale con Didael KTS si è sempre poggiato sull’e-learning, inteso come “dialogo e interazione”: per questo sono subito stata attratta dalla possibilità, fornita dalle tecnologie, di utilizzare il gioco per interagire, dunque per dialogare. Per questo la gamification entra nell’e-learning, e l’e-learning entra nella gamification. I videogame, a patto che ben programmati, non ripetitivi, sfidanti e stimolanti, possono essere davvero un potente alleato. Anche per fare crescere i bambini e i ragazzi in modo armonico.